Da Machiavelli a Calamandrei, argomenti intorno alla credibilità dello Stato
Marco Manneschi*
Una breve presentazione biografica di Niccolò Machiavelli, uno due illustri fiorentini di cui andremo a parlare, sarà utile per contestualizzare i discorsi a seguire.
Nasce a Firenze il 3 maggio 1469; studia Latino, grammatica ed aritmetica. Si forma su alcuni classici (Cicerone, Macrobio, Giustino, Tito Livio) e studia i principali storici (Tucidide, Polibio e Plutarco).
Presenta nel febbraio del 1498 la sua candidatura a Segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica Fiorentina (affari interni e la guerra) ma gli viene preferito un candidato savonaroliano. Caduto il Savonarola viene indi eletto nel giugno dello stesso anno Segretario (ai compiti sopra indicati viene assommato quello della Cancelleria dei “Dieci di libertà e pace” ovvero il tenere rapporti con gli ambasciatori della Repubblica). A ragione viene definito il Segretario Fiorentino.
Uomo di fiducia del Gonfaloniere Soderini. Compie numerose missioni per conto della repubblica presso il Papa, il re di Francia Luigi XII, il re Massimiliano di Germania.
Fra le tante, si occupa anche della nostra terra: “Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati… giudico ben giudicato che a Cortona, Castiglione, il Borgo, Foiano, si siano mantenuti i capitoli, siano vezzeggiati e vi siate ingegnati riguadagnarli con i beneficii [ … ] ma io non approvo che gli Aretini, simili ai Veliterni ed Anziani non siano stati trattati come loro… I Romani pensarono una volta che i popoli ribellati si debbano o beneficare o spegnere e che ogni altra via sia pericolosissima”.
Al ritorno dei Medici nel 1512 perde l’incarico e viene confinato e multato; in seguito anche incarcerato. Solo con l’elezione del papa Medici (Leone X) arriva l’amnistia ma i Medici non lo vogliono a corte. Si ritira quindi nel suo podere all’Albergaccio ed inizia a scrivere. Nel 1513 finisce Il Principe e nel 1519 I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Viene riammesso dal Cardinale Giulio de’ Medici alla collaborazione (fu incaricato di scrivere una Storia di Firenze) e riprese la vita pubblica. Alla cacciata dei Medici nel 1927 si propone nuovamente come Segretario della restaurata Repubblica, ma il sospetto della collusione con i Medici lo ha fatto cadere nuovamente in disgrazia. Per l’’umiliazione patita si ammala e repentinamente muore il 21 giugno 1527.
Nell’ambito della nostra trattazione è da sottoporre all’ attenzione il trattato che Machiavelli scrisse alcuni anni dopo il più famoso “Il Principe”, ovvero “I discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, un’opera più ampia e matura di riflessioni di sconvolgente attualità.
Partiamo dai princìpi di qualunque città e troviamo che per Tito Livio/Machiavelli sarebbe meglio fondare le città in luoghi sterili affinché gli uomini – costretti ad industriarsi e meno occupati dall’ozio – “vivessero più uniti avendo…meno cagione di discordie”. Machiavelli analizza il sistema giudiziario e sostiene la necessità delle accuse per mantenere lo Stato in condizioni di libertà: infatti sapendo poter essere accusati i cittadini si riguardano dal commettere reati e se li commettono, scoperti, vengono puniti. E’ però altrettanto necessario reprimere duramente le calunnie, se si vuole mantenere la libertà e l’ordine.
Machiavelli distingue fra i fondatori delle repubbliche e dei regni, che sono “laudabili”, dai fondatori delle tirannidi che sono “vituperabili”.
Per mantenere le repubbliche o i regni è necessario sia le buone leggi sia i buoni costumi.
Ed è per questa ragione che Machiavelli biasima la vicenda degli Orazii (il vincitore, travata la sorella in lacrime per la morte del marito albano Curiazio, la uccide e viene tratto a giudizio; i Romani gli condonano il delitto perché aveva salvato Roma) traendone tre principi: mai arrischiare il tutto con poco; mai compensare i demeriti con i meriti; mai disapplicare le leggi.
Per avere basi solide una Repubblica “Non debbano i cittadini, che hanno avuti i maggiori onori, sdegnarsi de’ minori”; e mentre gli uomini sono facili ad essere corrotti, il popolo “molte volte, ingannato da una falsa immagine di bene, disidera la rovina sua” ma “quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno, come qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose o dagli uomini, si viene alla rovina, di necessità”.
“La moltitudine è più savia e più costante che uno principe… tanto che “a un popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto nella via buona: a un principe cattivo non è alcuno che possa parlare né vi è altro rimedio che il ferro”.
***
Come già per Machiavelli alcuni cenni in relazione alla vita di Calamandrei.
Nasce a Firenze il 21.4.1989. Si laurea a Pisa nel 1912 e nel 1915 diviene professore di diritto processuale civile. Sottoscrive il Manifesto degli intelletuali antifascisti di Benedetto Croce e non prende la tessera del fascio. Nel 1931 giura comunque fedeltà al regime. Nel 1939 viene chiamato insieme a Carnelutti e Redenti (i massimi giuristi dell’epoca) dal Ministro della Giustizia Grandi per riformare il codice di procedura civile.
Nel 1941 aderisce al movimento Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli e nel 1942 insieme a Ugo La Malfa e Ferruccio Parri fonda il Partito d’azione. Rettore dell’Università di Firenze viene eletto all’assemblea costituente ove si distingue per acutezza e profondità di pensiero. Propone una Repubblica Presidenziale. Viene annoverato fra i padri costituenti come “rappresentante del liberalismo sociale”. Fonda la rivista “Il Ponte”. Muore a Firenze il 27 settembre ’56.
Per Calamandrei “la politica è un calcolo di forze concrete; ma sbaglia i calcoli chi trascura, tra queste forze, la fede morale; che a lunga scadenza è sempre quella destinata a prevalere”; la politica “è soprattutto visione profetica delle lontane mete ideali, verso le quali, di tappa in tappa, cammina faticosamente, spinta non dall’interesse materiale ma dallo spirito operoso, la storia del genere umano”.
La Repubblica, all’indomani del referendum del 1946, per Calamandrei “vuol dire la nostra casa, la nostra famiglia, questo senso di civile responsabilità di un popolo che finalmente si sente padrone del proprio destino; questo senso di vicinanza e di solidarietà in cui ci riconosciamo e sentiamo che d’ora innanzi…ognuno conta e conterà per uno, e le mani di chi lavora e lavorerà potranno stringersi fiduciose e concordi”.
Calamandrei affronta un tema scottante: la Repubblica Presidenziale “Ciò che spaventa gli avversari della repubblica presidenziale è soprattutto il pericolo della concentrazione nella sola persona del Presidente delle due cariche di capo dello stato e di capo del governo, che si teme possa invogliare alla dittatura. Non credo che questi timori siano fondati, perché le dittature escono da un esecutivo politicamente debole, più spesso che da uno giuridicamente forte”.
Analizza un tema altrettanto delicato, quello della corruzione ed in particolare della corruzione parlamentare, evidenziando che mentre i cittadini hanno in odio la corruzione intesa come arricchimento personale, “tutti gli altri moventi – ambizione, vanità, faziosità, intrigo elettorale – sono condonati e considerati legittimi”. Calamandrei ritiene che “Assai più della corruzione patrimoniale (la quale è…un fenomeno assai raro…) questa psicologia elettoralistica è veramente una delle cause più profonde della decadenza parlamentare e dell’immiserimento della lotta politica che da lotta di partiti per il trionfo del proprio programma si trasforma in lotta di uomini singoli per la propria rielezione”.
Affronta inoltre il livello di maturità del sistema democratico inglese dove l’alternanza non è ragione di insanabili dissidi: “Il costume democratico, di cui il popolo inglese dà così alto esempio, non è un dono di natura, ma la conquista di un prolungato sforzo educativo che ogni altro popolo, volendo, può compiere”.
L’excursus su questo previdente uomo di Stato termina con alcune sue riflessioni sugli auspicati Stati Uniti d’Europa, che devono essere dei cittadini e dove la parziale rinuncia alla sovranità non è imposta ma si accompagna alla crescita dei diritti, della pace e della prosperità.
***
Nel terminare questo breve discorso occorre evidenziare e sottolineare le numerose analogie fra i due pensatori a proposito delle sane fondamenta dello Stato.
Ovviamente risaltano le differenze, ma dobbiamo considerare le condizioni personali ed i differenti momenti storici – Machiavelli assiste alle continue rovine di repubbliche, città, principati, ed è necessariamente un realista; Calamandrei vive e scrive dopo una guerra che ha distrutto l’Italia e collabora operosamente alla sua ricostruzione, morale e materiale; è quindi, altrettanto necessariamente, un idealista.
Ma se l’idealismo di Calamandrei è intriso di un sapiente “uso della ragione” il realismo di Machiavelli è attraversato dall’idealità del “buon governo” sia esso nella repubblica ovvero nel principato, tale comunque da assicurare la pace e la prosperità.
Relazione tenuta il 6 dicembre 2018
*
Socio del Club |